Giorgio Proietti e Beethoven
Dino Villatico
Critico della “Repubblica”
Per un direttore d’orchestra il confronto (ogni interpretazione è un confronto) con le partiture di Beethoven è un po’ come per un attore o regista misurarsi con Shakespeare. E proprio Shakespeare, sia pure con la mediazione della riscrittura di Heinrich Joseph von Collin, è la fonte drammaturgica dell’ouverture del Coriolano. Contrariamente a ciò che si pensa in genere, Beethoven è un grande drammaturgo, e concepisce quasi sempre drammaturgicamente le sue partiture. Temi, ritmi, situazioni armoniche sono personaggi di un conflitto eroico che talora trova una conciliazione, ma altre volte, come nel Coriolano, si concludono con la sconfitta dell’eroe. Il Coriolano di Shakespeare, nel quale il poeta sembra autoritrarsi, è un eroe soccombente già dalle prime scene, anche se appare vittorioso dei nemici che assediano Roma, e da una vittoria, la resa di Corioli, a Caio Marzio viene dato il cognomen di Coriolano. Ma intorno a sé Coriolano ha solo nemici. Il popolo lo accusa di superbia. Gli amici, e perfino la madre, di ostinatezza. Ma Coriolano è consapevole che non si tratta né di superbia, né di ostinatezza, bensì della consapevolezza della propria solitudine morale rispetto al mondo, anche il mondo della sua città e della sua famiglia. Beethoven, leggendo la tragedia, poteva dire bene: sono io! L’unico a capire la sua separatezza dal mondo, che gli altri giudicano orgoglio, vanto di superiorità, è il suo nemico, Tullo Aufidio, generale dei Volsci. Lo accoglie, infatti, a braccia aperte, quando Coriolano gli si offre come alleato. Ma poi, nell’amicizia, profondissima, s’inserisce la madre, che convince il figlio a tradire la causa di Aufidio per salvare Roma. “O madre, madre! Salvi Roma, ma uccidi tuo figlio!” In realtà il suo è un suicidio, un togliersi dal mondo. E la mano che lo compie quella dell’amico Aufidio, che solo per gli altri appare ritornato nemico. Ma non per Coriolano. Nell’ultimo abbraccio, simile a quello con cui lo aveva accolto amico, Aufidio lo pugnala, non perché lo odia, ma per serbarlo amico. E’ lui a tesserne poi l’elogio funebre, come Fortebraccio di Amleto, nella tragedia che con Coriolano ha molti punti di contatto. Entrambi sono eroi del distacco, della distanza dal mondo. C’è un bellissimo video della BBC, regia di Elijah Moshinsky, uno straordinario Alan Howard interpreta il personaggio di Coriolano, e un intenso, bellissimo Mike Gwilym è Aufidio. Tra i due sembra esserci qualcosa di più di un’amicizia, forse il riconoscimento di una solitudine intellettuale nella quale entrambi si rispecchiano. L’abbraccio finale che decreta la morte di Coriolano, più che un assassinio, sembra un abbraccio amoroso. Profondamente shakespeariano! Si pensa alla Dodicesima notte, ai Sonetti. Se mi sono dilungato così tanto sul Coriolano, è perché nell’ouverture beethoveniana sembra condensarsi l’essenza stessa della costruzione musicale di Beethoven. L’idea che fa partire tutta la musica è semplicissima, quasi rudimentale. Un ritmo di trocheo, lunga breve, che nel tema si rovescia in giambo, breve lunga. Quest’unico ritmo, le due facce Beethoven le interpreta come speculari, innerva tutta la partitura, anche la bellissima melodia, che di questo ritmo non è che una variante fiorita. Ebbene: Giorgio Proietti fa leva proprio sulla scansione di questo ritmo, sui lunghi silenzi che separano il riproporsi ossessivo della stessa cellula. Gli accordi pizzicati che concludono l’ouverture sono l’immagine sonora del suicidio di Coriolano, il suo abbandonarsi alla sconfitta, il suo scomparire dal mondo.
Le altre due pagine beethoveniane proposte da Proietti, la Prima Sinfonia e la Settima, hanno in comune con l’ouverture del Coriolano la stessa ossessione ritmica. Che nella Prima Sinfonia è fatta risaltare dalla dissonanza che la apre. Si dice che Haydn, ascoltandola, si alzasse sdegnato ed esclamasse: “Non si comincia così una sinfonia!” Dov’era lo scandalo? Che la settima di apertura risolve sulla sottodominante. E pertanto la risoluzione della dissonanza è rinviata. Come poi farà di regola Wagner. L’urto armonico corrisponde al brivido ritmico che percorre tutto il primo tempo. E tutta la sinfonia, che per molti versi sembra anticipare gli atteggiamenti già quasi “neoclassici” dell’Ottava. Altro che imitazione di Haydn e di Mozart! anche se l’ombra della Jupiter incombe, soprattutto nell’ultimo tempo, più come una minaccia respinta che come un oggetto d’amore. E così arriviamo alla Settima. Qui tutto sembra chiarirsi, nel senso che ritmo e armonia procedono congiunte nel proporre dissonanze e contrasti che però trovano sempre la via d’uscita. Salvo che nell’Allegretto. L’ossessivo ripetersi della figurazione ritmica sulla quale s’innesta la melodia (non il tema! il tema per Beethoven è sempre un insieme di accadimenti, ritmo, armonia e melodia, nessuno separato dall’altro, come avverrà con i romantici, e nemmeno per tutti) apre voragini in cui precipita qualunque piacere di abbandono, l’abbandono, infatti, è una corsa all’abisso. Pagina desolata quanto poche altre. Se non ci fosse la frenesia danzante dello scherzo e la gioiosa esultanza (ma fino a che punto gioiosa? e fino a che punto esultante?) del finale, questa sarebbe tra le pagine più nere di Beethoven. Ma i finali pessimistici in Beethoven sono rari. L’op 57 (la cosiddetta “Appassionata”) l’op. 131, e poche altre. Altrove uno sforzo davvero titanico della volontà cerca sempre di trovare, nell’ultimo tempo, un esito esultante, appunto, ai conflitti dei tempi precedenti. Il più desolato di tutti, comunque, resta forse quello del Coriolano, veramente qui Beethoven sembra abbandonarsi, quasi con sollievo, all’annientamento. La lettura che di queste pagine ci offre Proietti sembra la realizzazione sonora di questa drammaturgia. Si ascolti la sospensione tesa delle pause, la cantabilità distesa ma nervosa delle melodie, la scansione netta dei ritmi, l’intelligibilità percepibile del contrappunto, anima della scrittura di tutto Beethoven.